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Una swimmer a Parigi nella bufera dell’epatite C

Quando la World Federation of Science Journalists mi ha chiesto di segnalare colleghi esperti e competenti per un nuovo progetto che intende creare materiali per aiutare i giornalisti  scientifici di tutto il mondo a scrivere con competenza e rigore di epatite C ho fatto un paio di nomi, tra cui quello di Roberta Villa – che conosco da oltre vent’anni e di cui conosco bene la sensibilità nei confronti del marketing travestito da campagna di utilità sociale – che è quindi stata invitata a partecipare al gruppo di lavoro internazionale. Ecco il suo resoconto.

(Fabio Turone)

di Roberta Villa

Roberta Villa

La swimmer Roberta Villa

L’introduzione dei nuovi farmaci per l’epatite C ha aperto un nuovo campo di battaglia su cui si affilano le armi e si giocano interessi milionari: da una parte c’è chi pensa che questi trattamenti, forse i primi farmaci capaci di eliminare completamente un’infezione virale, rappresentino una clamorosa svolta nella storia della medicina, e debbano quindi essere forniti a tutti, a ogni costo, forse addirittura per cogliere l’opportunità di eradicare la malattia dalla faccia del pianeta; dall’altro c’è chi vede nelle campagne di sensibilizzazione su questo virus subdolo una nuova occasione di facile profitto per le aziende farmaceutiche che hanno stabilito per questi stessi farmaci prezzi proibitivi, tali da mettere in discussione la sostenibilità delle cure perfino nei Paesi a reddito più elevato. In tutto il mondo si discute delle modalità con cui le case farmaceutiche sono arrivate a stabilire questi prezzi e a negoziarli con i diversi Paesi. Ci si confronta sull’opportunità (e le eventuali modalità) di programmi di screening, spinti da interessi economici molto forti, che dalle aziende produttrici dei farmaci si estendono a quelle che forniscono tutto il necessario per la diagnostica. Sullo sfondo, le incertezze scientifiche sulla storia naturale dell’infezione e i possibili esiti a lungo termine della campagna di “sensibilizzazione” rendono incerta ogni presa di posizione al riguardo.

In questo contesto scivoloso la World Federation of Science Journalists ha deciso di fornire ai colleghi di tutto il mondo materiale informativo che serva a orientare non solo i giornalisti specializzati in medicina, ma anche quelli che si troveranno ad affrontare l’argomento dal punto di vista delle sue importanti iSchermata 2015-06-01 alle 11.27.45mplicazioni economiche e di politica sanitaria. Il progetto tuttavia si presenta subito con un peccato originale: è infatti sostenuto da una casa farmaceutica, Abbvie. Qui qualcuno storcerà il naso, così come ho fatto io, pensando subito a una globale operazione di marketing per attirare l’attenzione dei media sulla malattia e propagandare le nuove terapie.

Quando però mi è stato chiesto di partecipare a una tavola rotonda che definisse i contenuti del programma e le loro modalità di presentazione non ho detto subito di no. Mi sono anzi chiesta se, essendo io cresciuta professionalmente respirando ogni giorno caccia a disease mongering e conflitti di interessi, non fossi proprio la persona giusta al posto giusto. Ricordo bene la campagna di “sensibilizzazione” sull’epatite C di qualche anno fa, quando si invitava la gente a sottoporsi al test con uno slogan del tipo: “Ti senti bene? Potresti avere l’epatite C”. La citiamo sempre come esempio paradigmatico della strategia di aumentare il numero di potenziali clienti con il pretesto di “sensibilizzare il pubblico” nei confronti di una malattia per la quale, a quei tempi, non c’erano nemmeno cure efficaci. L’incontro poteva quindi essere per me un’occasione per portare una voce controcorrente, nel caso l’operazione fosse guidata o peggio, interamente manipolata, dall’azienda. Speravo in ogni caso di poter spingere la discussione verso una maggiore obiettività o almeno far sorgere anche negli altri dei dubbi, presentando dati e posizioni diverse da quelle diffuse da big pharma. Nel peggiore dei casi, le mie parole sarebbero cadute nel vuoto, ma avrei potuto dire di averci provato.

Per questo, nonostante qualche perplessità, ho accettato di farmi pagare il viaggio e la permanenza a Parigi, dove si è tenuto l’incontro, precisando per iscritto che la mia partecipazione era subordinata a una totale indipendenza di giudizio e libertà di espressione, anche contro gli interessi della casa farmaceutica. Devo dire però che i miei timori, alla prova dei fatti, si sono, almeno all’apparenza, rivelati infondati: al meeting non era presente nessun rappresentante dell’azienda, che non è comparsa in nessun altro modo, né ha fornito materiale preconfezionato; l’esperto che, il primo giorno del meeting, ci ha aiutato a orientarci era Jean-Michel Pawlotsky, esperto di fama mondiale, che pubblica sulle riviste più autorevoli, docente di medicina all’Università di Parigi Est, direttore del Centro Nazionale di Riferimento per l’epatite virale B, C e delta, del Dipartimento di virologia dell’ospedale universitario Henri Mondor di Créteil e del Dipartimento di virologia molecolare e immunologia all’INSERM.

Un uomo al servizio delle case farmaceutiche? Non saprei. Quel che posso dire è che nel corso del dibattito Pawlotsky ha sottolineato più volte come il problema dell’epatite C, che sicuramente esiste ed è importante, in molti Paesi è secondario a quello dell’epatite B, che si potrebbe facilmente risolvere con programmi di vaccinazione ben organizzati. Ci ha messo in guardia contro la pretesa delle aziende di tenere prezzi alti per rientrare degli investimenti fatti nella ricerca, sottolineando come le scoperte più importanti che hanno portato allo sviluppo di questi nuovi farmaci siano state fatte all’interno di istituzioni pubbliche, dagli NIH a laboratori di università di tutto il mondo, per cui la società ha già fatto la sua parte e non è giusto quindi chiedere ai cittadini di pagare due volte. Ha detto chiaro e tondo come le industrie farmaceutiche, messa una toppa alla questione AIDS, cercassero con l’epatite C nuovi settori in cui applicare le competenze ottenute in quel campo per aprire nuovi mercati. Insomma, non mi è parso proprio un portaveline di quelli che purtroppo siamo spesso abituati a incontrare.

Idem per i giornalisti. Intorno al tavolo dell’ANRS, Agence Nationale de Recherche sur le Sida et les hépatites virales, eravamo una quindicina: oltre a Colleen Manitt e Damien Chalaud, rispettivamente project manager ed executive director dell’iniziativa per la WFSJ, c’erano colleghi di spicco provenienti da tutto il mondo.

Un altro canadese, André Picard, è health columnist a The Globe and Mail, uno dei più importanti quotidiani a diffusione nazionale in Canada. Dagli Stati Uniti c’erano Philip Hilts, ex direttore del Knight Science Journalism Program al MIT, che ha collaborato per vent’anni con il New York Times e il Washington Post, e Sabin Russell, che ha scritto di salute fino al 2009 per il San Francisco Chronicle, dove era responsabile di coprire i temi riguardanti HIV/AIDS. Molto attivo nella discussione è stato Poul Birch Eriksen, giornalista radiotelevisivo della principale rete danese (Danish Broadcasting Corporation), per cui ha coperto i temi di scienza e salute globale, partecipando anche a campagne nazionali di informazioni sull’AIDS. Anche Cécile Klingler, collaboratrice di lungo corso de La Recherche, si è dimostrata un’interlocutrice attenta e propositiva; un’altra giornalista radiotelevisiva francese, Claire Hédon, si è unita a noi per parte del dibattito. Non mancavano rappresentanti da altri continenti: a presentare il punto di vista dell’Africa c’era Christophe Assogba dal Benin, mentre per l’Asia ha partecipato il sud coreano Chul Joong Kim, attuale presidente della WFSJ, medico e giornalista che scrive di salute su un importante quotidiano (Chosun Ilbo) e tiene rubriche alla radio e alla televisione.

A Seoul si terrà nei prossimi giorni anche la nona World Conference of Science Journalists. In quell’occasione il primo abbozzo del programma formativo sarà presentato ai colleghi di tutto il mondo da Mohammed Yahia, executive editor del Nature Publishing Group per il Medio Oriente, che molti swimmer hanno già avuto il piacere di incontrare alla Scuola di Giornalismo scientifico di Erice le scorse settimane. La sua testimonianza dall’Egitto, uno dei Paesi in cui l’HCV ha maggiore prevalenza, e dove bufale colossali sono state fatte circolare dalle autorità a soli scopi politici, è stata particolarmente preziosa.

Nell’insieme il dibattito è stato sorprendentemente aperto, privo di qualunque nota polemica. Mi è capitato raramente di potermi confrontare così su un tema scottante, senza preconcetti, con persone di grande esperienza e intelligenza, che ascoltavano prima di parlare, per cercare tutti insieme di capire il più a fondo possibile i problemi e definire come trasmettere tutto questo al meglio a chi si avvicinerà al programma. Nessuno è sembrato a servizio delle case farmaceutiche, nessuno si è dimostrato fanatico nel demonizzarle. Anch’io quindi ho sotterrato l’ascia di guerra, limitandomi a ricordare che anche gli screening comportano rischi e ridimensionando di continuo le certezze sull’efficacia dei trattamenti. Nessuno mi ha contrastato in questo, e spero che il materiale che alla fine ne uscirà rifletterà la posizione equilibrata su cui ci siamo incontrati: spiegare le caratteristiche reali della malattia, le incertezze che ancora abbiamo al riguardo, le prospettive aperte dalle nuove cure, senza enfatizzarle ma auspicando che siano garantite a tutti quelli che ne hanno veramente bisogno.

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